Italia, ecco come si puo avere la cittadinanza: pagando in nero!

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cittadinanza italianaI nomi sono di fantasia, la storia no. Adam e Sonja, marito e moglie, arrivano in Italia nel 1997 con le prime ondate di sbarchi dall’Albania. Ottengono il permesso di soggiorno, trovano un lavoro.
Nel 2008 presentano la domanda di cittadinanza: vivono qui da oltre 10 anni e hanno la fedina penale immacolata. La legge dice che lo Stato deve rispondere entro 730 giorni. Ma i due anni passano invano. Istanze, solleciti, raccomandate per posta certificata sbattono su un muro di silenzio.

Il 15 febbraio 2013 depositano una diffida. «Avremmo fatto ricorso al Tar del Lazio, ma l’avvocato chiese 1.500 euro che non avevamo», raccontano. Ancora nulla. Un giorno a Sonia arriva la voce che un certo avvocato sa come fare: in cambio di alcuni biglietti da 100 euro (in nero) va in questura, estrae il fascicolo e lo mette in cima alla pila di carte. In 5 anni la pratica non aveva lasciato gli uffici di polizia, ma la manina magica compie il miracolo. Dopo un mese il fascicolo vola al Viminale e dopo altri sei mesi giunge la cittadinanza. Il fascicolo del marito, invece, è sempre fermo.

Ecco come si diventa cittadini italiani: pagando in nero avvocati senza scrupoli. Ahmed (altro nome inventato) sbarca in Italia nel 1994. Dopo aver fatto mille lavori, ora gestisce un negozio di kebab. Nel 2008 chiede la cittadinanza. Trascorrono cinque anni prima di sapere che ancora «mancano elementi informativi essenziali per la definizione dell’istanza». Le mail certificate tornano indietro perché la casella del Viminale è piena.

Altro giro, altro avvocato specializzato a rastrellare pratiche di disperati a tariffa variabile: si va dai 400 ai 1.200 euro. Il legale è di Roma ma lo si incontra sovente nei tribunali del Nord. Vanta agganci sicuri al ministero. E anche Ahmed paga per avere ciò che gli spetterebbe per legge.

«Anziché dare opportunità reali, importiamo disperazione», scuote la testa Mimma Pelleriti, responsabile delle politiche d’integrazione alla Cisl di Bergamo, in prima fila nel denunciare le scorciatoie utilizzate per diventare italiani. «Il mercato della cittadinanza è indecente. Chi la chiede dovrebbe essere ben noto alle autorità di pubblica sicurezza: ci vogliono 10 anni di residenza effettiva e regolare in Italia, con permesso di soggiorno, lavoro, nemmeno una multa, dimostrando di essere integrati nel contesto sociale. È gente inserita che non ha mai dato problemi. Due anni per raccogliere i pareri delle forze dell’ordine di zona e valutare le istanze è un periodo congruo. Invece i ritardi burocratici aprono lo spazio al commercio clandestino delle pratiche. Ormai ottiene la cittadinanza in tempi brevi soltanto chi paga: in modo lecito (i ricorsi al Tar) o illecito (gli avvocati senza scrupoli)».

L’Anolf di Bergamo (Associazione nazionale oltre le frontiere), ente legato alla Cisl, ha denunciato il fenomeno alla questura orobica facendo il nome di un professionista romano che naviga nel torbido. Nella segnalazione si legge che l’avvocato è a conoscenza, non si sa come né a che titolo, di nomi e telefoni di chi ha chiesto la cittadinanza, e che si propone «dietro compenso di farsi carico della pratica, riuscendo a ottenerla in breve tempo senza la necessità di rivolgersi alla giustizia amministrativa in quanto vantava importanti amicizie tra il personale del ministero».

Una denuncia grave: al Viminale ci sarebbero impiegati o funzionari compiacenti che, approfittando delle lentezze amministrative (o addirittura favorendole), alimentano il bazar delle concessioni, vergognoso e illegale, gestito da avvocati senza scrupoli. «La gran parte degli immigrati sono abituati a mercanteggiare su tutto – dice Adriano Allieri, responsabile di Anolf Bergamo -, a pagare anche ciò cui hanno diritto, ma noi dovremmo dare un segnale che qui le cose funzionano diversamente».

Ma le scappatoie per diventare italiani comprendono altri tipi di complicità, oltre a quelle delle amministrazioni pubbliche. Ci sono anche i datori di lavoro disonesti che firmano contratti di soggiorno per manovalanza stagionale che invece non viene mai assunta. Il racket dei clandestini gira a questi imprenditori-truffatori una parte dei soldi estorti ai disperati. Gli stranieri pagano per avere un permesso temporaneo, che può andare da tre a 9 mesi, per lavorare nelle campagne, come colf o badanti, o nel turismo, in ristoranti e alberghi durante la stagione delle vacanze.

La realtà è diversa. Sbarcano con contratti di lavoro simulati e poi restano come clandestini. Non lavorano nemmeno un giorno, ma riescono comunque a mettere piede in Italia in modo apparentemente regolare affidandosi poi all’immortale arte di arrangiarsi. La catena delle illegalità è lunga fino ad arrivare alla richiesta della cittadinanza, dove subentrano le lungaggini e le connivenze di avvocati che millantano agganci al ministero e oliano le pratiche in cambio di soldi.

«L’assenza di controlli in questo campo è uno scandalo – protestano Pelleriti e Allieri -. Da noi si presentano tantissimi immigrati con i contratti di soggiorno ma nessuna posizione aperta all’Inps. Basterebbe incrociare i dati delle questure e della previdenza per scoprire questo tipo di truffe e combattere la clandestinità. Perché non lo fanno? E perché l’Unione europea non applica controlli maggiori? In fondo, con la cittadinanza un extracomunitario acquisisce la libera circolazione. Il buonismo dilagante copre molte situazioni fuorilegge. Non è giusto e non è dignitoso per queste persone. Noi non vogliamo essere complici di un sistema che promuove l’illegalità, ma condividere buone prassi».

Fabrizio Boschi / www.ilgiornale.it